Wednesday, May 30, 2007
Intervista con un genio
Ji Lee, coreano di nascita, brasiliano di adozione e americano di carriera, e’ uno dei piu’ geniali Art Director e Designer della scena americana (e quindi mondiale). Tra i suoi clienti figurano New York Times, Coca-Cola, Jaguar, Samsung, Nike, Tylenol, T-Mobile. Ma Ji Lee e’ noto soprattutto per i suoi progetti indipendenti, come il “Bubble Project” (www.thebubbleproject.com) e l’ “Abstractor” (http://abstractor.tv/). Con Parma Ji ha un rapporto particolare: infatti, Parma e’ stata la prima citta’ italiana (e una delle prime al mondo) dove e’ sbarcato il suo Progetto Bolla.


Ci spieghi in due parole cos’e’ e com’e’ nato il Progetto Bolla?

Il Bubble Project e’ il modo che abbiamo di riappropriarci degli spazi pubblici che ci sono stati rubati dall’Advertising. Il Bubble Project e’ democratico, perche’ tutti possono dire quello che pensano semplicemente riempiendo le bolle, ed e’ un ottimo specchio delle opinioni collettive, perche’ raccogliendo le varie scritte emerge uno spaccato sociale del tutto spontaneo e privo di barriere all’accesso.

Com’e’ stata la tua esperienza di “Bollatore”?

Molto sistematica. Per mesi sono andato in giro ad attaccare bolle ai manifesti di New York. Ne ho attaccate circa trentamila. Un manifesto a New York ha un ciclo di vita molto basso, dopo due/tre giorni viene staccato o ricoperto. Per questo era indispensabile che la gente scrivesse subito, e che io tornassi dopo poco tempo a scattare le foto. In breve, di circa 30mila bolle alla fine erano piu’ o meno un migliaio quelle utilizzabili e pubblicabili.

Il Bubble Project e’ diventato cosi’ dapprima un sito web, poi un libro. Che differenze ci sono tra i due mezzi?

Il web e’ molto piu’ tollerante e ti permette piu’ versatilita’. Con le “bolle online” gli utenti possono scrivere le loro bolle comodamente dalla loro tastiera. Inoltre su Web sono permesse cose che su un libro sarebbero impubblicabili. La scrematura delle bolle “stampabili” e’ stata molto piu’ selettiva.
La versione cartacea d’altra parte permette di dare lo “strumento” della bolla direttamente nelle mani dell’utente: ogni libro contiene un adesivo a bolla che l’utente puo’ utilizzare come vuole.

Il Bubble Project e’ partito da New York ed e’ arrivato, oltre che a Parma, in tantissime citta’ del mondo. Credi che il fatto che sia successo a New York sia rilevante?

Assolutamente si’. Se un fenomeno ha il suo epicentro a New York hai la certezza che raggiungera’ tutto il mondo, che tutti i media ne parleranno. Se lo stesso fenomeno fosse nato, ad esempio, in un stato come il Minnesota o in una nazione come il Brasile difficilmente se ne sarebbe parlato cosi’.

Ci parli del tuo progetto piu’ recente, l’ “Abstractor”?

La genesi dell’Abstractor e’ stata curiosa. Stavo guardando un film porno e pensavo “che barba, succedono sempre le stesse cose”. Ho pensato che applicando una maschera alla televisione avrei potuto scoprire punti di vista piu’ interessanti, ad esempio focalizzandomi su particolari aree dello schermo e coprendo il resto. Ho fatto vari tentativi e ho scoperto che il risultato migliore si aveva coprendo quasi interamente lo schermo di nero e lasciando una sottile striscia di pixel in mezzo. Lo stesso concetto l’ho poi applicato agli schermi pubblicitari lungo le strade. Il risultato e’ qualcosa di assolutamente astratto, interessante e suggestivo.

Tra i tuoi “Indipendent Project” e le tue campagne pubblicitarie ci sono idee geniali, quasi rivoluzionarie, che coniugano la cultura da marciapiede al design piu’ sofisticato. Come ti vengono le idee? Te le sogni di notte?

Un progetto puo’ nascere da un’intuizione, ma non e’ un processo lineare ne’ tantomeno immediato. Un’idea ha bisogno di tempo per germogliare, e va continuamente aggiustata e ricalibrata man mano che diventa nitida nella propria mente e comprovata con l’esperienza diretta.

Ci puoi accennare ai tuoi prossimi progetti?

Con l’agenzia per cui lavoro attualmente, Droga5, stiamo portando avanti un progetto no profit chiamato “Tap Project” (www.tapproject.org) per portare acqua potabile ai bambini del terzo mondo. Il mio prossimo progetto indipendente sara’ invece online tra poche settimane e sara’ basato sullo stesso concept base dell’Abstractor.
 
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Monday, May 28, 2007
Gatti e cani nella mela
E’ solo dopo parecchi giorni che si vive a Manhattan che ci si rende conto di un’assenza inquietante. Un’assenza che nei primi giorni sfugge, ma che diventa via via piu’ visibile man mano che ci si abitua a passeggiare per le avenues o le street.
Insomma, a quanto pare a New York non ci sono gatti.
Un gatto a Manhattan sarebbe un animale felice. Avrebbe cibo in quantita’ industriale, visto che di topi (e ratti) son piene le fosse. Si stima che in tutta Manhattan siano qualcosa come 96 milioni i topi che si aggirano nei bassifondi, tra i binari della metropolitana e le strade piu’ sudicie, circa dodici per ogni persona.
In questa “toponimia” cittadina qualsiasi gatto si sentirebbe l’animale piu’ fortunato della terra, ma di gatti randagi in giro non ce n’e’. Una conseguenza della politica di tolleranza zero verso gli home-less da parte dell’ex sindaco Giuliani? Una decisa presa di posizione dei gatti contro i cartoni animati americani, da “Tom e Jerry” a “Itchy and Scratchy”, dove vince sempre il topo? Oppure, come giurerebbero molte malelingue, c’e’ un filo diretto tra questo fenomeno e il ripieno dei “dumplings”, gli squisiti tortelli al vapore di Chinatown? Insomma, di gatti in giro non se ne vedono. Ancora meno da quando anche il musical di “Cats” ha chiuso i battenti a Broadway dopo una serie di 7845 repliche.
I gatti hanno poca fortuna anche come animali domestici: chi vuole adottare un cucciolo di norma si sceglie un cane.
I new yorchini sono letteralmente pazzi per i cani. Li adorano. Li ricoprono di attenzioni. Cani di ogni forma, colore e dimensione, purche’ con pedigree di almeno dodici generazioni, passeggiano per la Fifth Avenue altezzosi e sicuri di se’ come nemmeno Audrey Hepburn, al guinzaglio di schiavi-padroni che ogni due per tre si fermano diligentemente a raccoglierne gli escrementi.
Tutto quello che si produce per un essere umano viene prodotto anche per un essere canino. In inverno un cappottino, magari di marca, non si nega a nessun cane. Nei supermercati si trovano mentine per l’alito per cani (saranno molto diverse dalle mentine per l’alito normali?). Ci sono anche le T-Shirt personalizzabili con nome e cognome. Esistono vestiti di Carnevale per cani. Il vostro cane puo’ diventare Darth Vader, oppure Zorro o una bella pastorella coi boccoli, e rimane senza risposta la domanda se cio’ sia piu’ umiliante per il cane o per il padrone che lo porta al guinzaglio.
Di contro, sempre piu’ cuccioli devono sopportare la tortura del collare elettrico: se il cane abbaia ad un’intensita’ superiore a qualche decibel, il collare rilascia una scarica elettrica. Come a dire: il prezzo degli agi.


***

Metropoli e animali. L’attrazione piu’ gettonata dello zoo di Central Park non e’ la vasca dei pinguini resa famosa dal film “Madagascar”. E’ invece il “Tisch Children Zoo”, dove i bambini vedono (molti di loro per la prima volta) animali considerati esotici come... mucche, pecore, galline, maiali e conigli.
 
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Sunday, May 20, 2007
Un altro parmigiano a New York
Forse solo chi ha la grande fortuna di poter vedere dall’interno come funzionano le grandi universita’ americane si puo’ rendere conto di quante teste, dai piu’ svariati paesi del mondo, contribuiscono a mandare avanti la ricerca scientifica americana. Chi fa ricerca sa che per mezzi, risorse economiche e tecnologia non esistono realta’ che possano fare a gara con gli Stati Uniti. E la “fuga di cervelli” (in inglese “Brain Drain”) verso gli States non e’ una trovata dei sociologi, ma un fenomeno reale che coinvolge decine di migliaia di giovani di tutta Europa, che scelgono di abbandonare i loro paesi per fare ricerca dove questa e’ piu’ all’avanguardia. Una statistica che fa riflettere e’ l’entita’ della borsa di studio per un dottorato di ricerca, che in Italia si aggira sui 840 euro, negli USA e’ di circa 4000 dollari: nonostante associazioni pubbliche e private e fondazioni come “Telethon” dedichino ulteriori fondi ai progetti di ricerca piu’ interessanti con l’intento di riportare in Italia i frutti del lavoro di ricerca, la differenza di mezzi e di risorse pesa.
Per conoscere esempi concreti di “fuga di cervelli” non serve andare lontano: sono tanti i laureati dell’Universita’ di Parma che scelgono di fare carriera all’estero.
Ad esempio, Simon Sanna Cherchi, cuneese di nascita e parmigiano d’adozione per studi e affetti, da 4 anni si occupa di ricerca sulle malattie genetiche renali alla Columbia University, collaborando con Parma (in particolare col professor Landino Allegri, il Primario di Nefrologia Carlo Buzio e il ricercatore Danio Somenzi) ma anche con Genova, Brescia, Milano, Londra e altri centri in USA. Lo abbiamo incontrato per sapere com’e’ la vita da ricercatore in una delle universita’ piu’ famose del mondo.

Andiamo per ordine. Perche’ dal Piemonte hai scelto di studiare proprio a Parma?

Quando si e’ trattato di scegliere la facolta’ sono stato per un po’ indeciso tra Bologna e Parma, un po’ per il livello delle universita’, un po’ per la qualita’ della vita. Poi, anche spinto dai miei, ho optato per medicina a Parma, che aveva fama di essere una facolta’ “tosta”.

E come sei passato da Parma a New York?

Dopo la laurea, durante la specializzazione, mi sono dedicato molto alla ricerca sulle malattie genetiche renali. Con alcuni collaboratori in altri centri italiani avevamo raccolto dati e campioni biologici di pazienti e famiglie con diverse patologie ereditarie. Alcuni di questi, vivendo in piccole comunita’ montane piuttosto chiuse, hanno interessanti caratteristiche genetiche. A Parma lo stato della ricerca non e’ al livello delle grandi universita’ americane, ma d’altra parte in citta’ come New York e’ difficile fare ricerca in campo di genetica umana per la maggior commistione di etnie e per la maggior disgregazione famigliare che porta frequentemente i componenti di una famiglia a vivere in citta’ distanti tra loro, perdendo cosi’ la possibilita’ di una buona ricostruzione genealogica. Con un po’ di “serendipita’” mi e’ stato offerto di continuare i miei studi “parmigiani” a New York, in equipe con una squadra della Columbia University, grazie anche all’intercessione del professor Landino Allegri e a un recente finanziamento della Telethon.

Quindi alla Columbia University esaminano il DNA di persone di Parma?

Si’. Non solo nella nostra provincia abbiamo dei perfetti case studies per questo tipo di ricerca, ma la raccolta del materiale e’ molto piu’ facile. In America l’elevata domanda di prestazioni mediche, con conseguente minor tempo dedicato al singolo individuo e l’ossessione per la tutela dei dati personali a volte arrivano a mettere i bastoni tra le ruote alla ricerca scientifica.

Com’e’ stato passare dalle aule di via Gramsci alla metropoli?

Prima di arrivare a New York dalla Columbia mi avevano detto che mi avrebbero dato un appartamento su Broadway, e mi immaginavo di uscire di casa e di essere a Times Square. In realta’ era si’ Broadway, ma nella parte nord di Manhattan, ai limiti col Bronx. Piu’ che essere a New York, sembrava di essere a Portorico. Per un anno ho lavorato a testa bassa e non mi sono nemmeno accorto di essere in America. Poi ho cominciato a vivere un po’ di piu’ la citta’. Per fortuna.

Parma o New York?

Impossibile fare paragoni tra New York e qualsiasi altra citta’ del mondo. New York e’ unica e inimitabile. E’ una citta’ in cui ti senti a casa e puoi trovare assolutamente tutto.
 
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Tuesday, May 15, 2007
Gli Anti-Soccer
Gli Americani fanno di tutto per essere originali. Usano miglia al posto di chilometri, galloni al posto di litri, libre al posto di chili, pollici al posto di centimetri. E baseball al posto del calcio.
Noi italiani (e in questo siamo in buona compagnia) non abbiamo mai capito perche’ l’americano medio si ostini in questa futile resistenza anti-calcio. Abbiamo provato di tutto per farlo assimilare al nostro modello culturale basato sulle partite di serie A come rito domenicale da rispettare. Abbiamo fatto la’ i Mondiali guidati dal nostro coach piu’ pittoresco e, almeno sulla carta, spettacolare. Abbiamo fatto in modo che la nazionale americana partecipasse a tutte le edizioni regalandole gironi di qualificazione a prova di “dummy”. Abbiamo persino provato a coinvolgere i loro presunti campioni nel nostro campionato (a Padova si ricordano ancora di Alexi Lalas). Adesso proveremo addirittura ad esportare glorie europee, come Beckham e, molto piu’ gettonata, sua moglie posh. E tutto questo non e’ bastato: l’americano continua a impazzire per il Superbowl, a schierarsi nella diatriba Red Sox contro Yankees, a cercare le facce dei vips nelle partite dei Knicks al Madison Square Garden... e a trattare il “soccer” come una cosa da femmine (o da minoranze etniche).
Per capire la cultura sportiva americana, e mettersi il cuore in pace sull’impossibilita’ di esportare il calcio, bisogna provare l’esperienza dello stadio dal vivo. Chi passa le sue domeniche in una curva a gioire e soffrire per la squadra del cuore fara’ un po’ di fatica a capire lo spirito dello sport americano: sembra quasi che la partita sia un pretesto, un diversivo per passare qualche ora con amici o famigliari ad ingozzarsi di hot dog e birra. Tutto viene sacrificato allo spettacolo, persino l’agonismo: a farla da padroni sono il maxi-schermo, dove ogni azione viene accuratamente sviscerata e dove ogni spettatore pagante sogna di apparire in uno dei divertenti sketch di intervallo, e l’impianto audio, che non manca di incitare il pubblico ad urlare “Charge” (carica!), a cantare a squarciagola qualche canzone popolare o ad alzarsi in piedi per una commossa partecipazione per l’inno nazionale (sia ad inizio partita che al settimo inning: un patriottismo tanto esibito da rasentare il fanatismo nazionalista). Nessuno si stupisce se il gioco vero viene continuamente interrotto da pause: fine degli innings, cambio campo, time out, fine del quarter, sostituzione e avanti cosi’- l’importante e’ trovare il tempo per nuovi spot (in TV) o nuovi giochini da maxischermo (allo stadio) per intrattenere il pubblico mentre consuma.
In questo scenario, si comprende come il concetto di “curva ospiti” non sia nemmeno lontanamente applicabile. Sarebbe come separare le poltrone del cinema a seconda della provenienza geografica degli spettatori. Uno puo’ permettersi di insultare la squadra di casa per tutto il tempo, e non temera’ alcun male dai supporter locali: in fondo e’ solo un gioco. Purche’ non finiscano gli hot dog e la birra: allora si’, che il pubblico comincerebbe a a mugugnare!


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Non piacera’ all’americano medio, eppure in America una serie A esiste: la Major Soccer League ha visto la luce nel 1996, 12 anni dopo la chiusura “per fallimento” della North American Soccer League (attiva dal 1967 al 1984) in cui avevano militato campioni a fine carriera come Pele’, Bettega o Chinaglia. Come da tradizione nello sport americano, anche nella MLS mancano promozioni e retrocessioni in categorie superiori o inferiori. Informazioni su squadre, regolamento e albo d’oro al sito web.mlsnet.com.
 
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Monday, May 14, 2007
Un nuovo proibizionismo
Oltre alle guerre combattute con le armi all’estero, gli Stati Uniti stanno combattendo sul proprio territorio altre guerre meno visibili ma altrettanto sentite. I nemici in questo caso non si chiamano terroristi o talebani, ma hanno nomi astratti e inquietanti come “fumo” e “alcol”. Gli esiti di queste guerre nazionali, un po’ come di quelle combattute all’estero, sono difficili da valutare, malgrado la Casa Bianca e i vari Governatori di tanto in tanto diramino rassicuranti cifre che dimostrano inequivocabilmente il successo delle loro “policies”.
In generale l’impressione e’ che le politiche restrittive sul tabacco (vietata la vendita ai minori, prezzi iper-tassati, tolleranza zero nei locali, pesanti limitazioni nelle pubblicita’) abbiano contribuito ad abbassare la percentuale di fumatori, che comunque rimangono una buona fetta della popolazione: circa il 47 milioni, di cui il 23% degli adulti e il 30% degli adolescenti. Malgrado un pacchetto di sigarette costi la bellezza di 7 dollari a New York (ma il prezzo varia a seconda dello stato, con un record negativo da parte del Sud Carolina che impone una tassa di soli 7 cents), l’eta’ della prima fumata e’ sempre piu’ precoce: si inizia in media a 13 anni.
Se comunque il fumo appare generalmente in calo, l’efficacia delle misure anti-alcol e’ tutta da dimostrare. La lotta all’alcol e’ stata una delle priorita’ degli ultimi governi ed ha portato all’adozione di misure drastiche. Per entrare in un pub bisogna avere 18 anni, per ordinare bevande alcoliche gli anni salgono a 21, e i buttafuori non si fanno problemi a chiedere un documento di identita’ anche a chi di anni ne dimostra 50. Nei posti pubblici come gli stadi agenti in borghese si assicurano che non vengano consumate bevande alcoliche (birra inclusa) da parte di adolescenti. Il divieto di bere per strada, se non occultando la bottiglia o il bicchiere in una borsa di carta, e’ assoluto e a trasgredirlo, ad esempio portando un bicchiere di birra fuori dal pub, si incorre nel penale. Gli appelli alla moderazione sono presenti ovunque, soprattutto nelle reclame degli stessi alcolici. Tutti fattori che hanno innegabilmente diminuito il consumo sulla scena pubblica. E’ anche vero pero’ che e’ cresciuto un consumo clandestino dell’alcol in ambienti privati, un po’ come succedeva ai tempi del proibizionismo: che un americano su due dai 12 anni in su e’ consumore di alcol; che di questi almeno 10-15 milioni (tra cui 4,5 milioni di adolescenti) hanno seri problemi, con circa 100mila morti all’anno causate direttamente dall’alcol piu’ tutte quelle derivate da incidenti stradali provocati dall’abuso di alcol (prima causa di mortalita’ tra i giovani dai 18 ai 24 anni).
In una societa’ come quella americana, dove tutto viene valutato in base al costo, una delle armi piu’ usate dai detrattori del fumo e’ la statistica. Secondo il best seller “The cost of smoking”, ogni fumatore americano spende nella propria vita per il fumo una media di 86mila dollari se donna, 183mila dollari se uomo. Se alle spese personali si aggiungono quelle della sanita’ si raggiungono 106mila dollari (donne) e 220mila dollari (uomini).
Insomma, pare che gli Stati Uniti contro fumo e alcol abbiano scelto la strada della repressione piu’ che quella della prevenzione. E’ ancora presto per analizzare i frutti di queste scelte: la speranza e’ che diano risultati piu’ concreti di quelli ottenuti applicando la medesima politica ad altri ambiti, come ad esempio la lotta al terrorismo.
 
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Tuesday, May 8, 2007
Un (quasi) italiano a Tribeca
Robert De Niro non e’ solo un attore che ha interpretato pietre miliari del cinema come “Toro Scatenato”, “Taxi Driver”, “Gli Intoccabili” e (fa quasi male dirlo) “Ti presento i miei”. Robert De Niro e’ anche un (italo) new yorkese molto affezionato alla sua citta’. Le sue piu’ grandi interpretazioni, da “Mean Streets” a “Taxi Driver” fino a “New York New York” sono legate alla Grande Mela. A New York De Niro ha anche aperto un paio di ristoranti molto quotati (Tribeca Grill, Nomu e Layla).
Quando due aerei guidati da terroristi hanno fatto crollare le Twin Towers, in molti a New York si sono dati da fare per aiutare la citta’ a riprendersi. Robert De Niro ha deciso di dare una mano nell’unico modo (per lui) possibile: organizzando un Film Festival nella citta’ che piu’ di ogni altra rappresenta la capitale mondiale del cinema, il set per eccellenza. Si puo’ obbiettare sull’utilita’ di organizzare un festival cinematografico come risposta al terrorismo, ma l’idea del signor Robert Mario De Niro, da molti criticata, poggia su solidi propositi: non solo il festival doveva dimostrare che la citta’ fosse ancora “alive and kicking”, viva ed orgogliosa di essere la capitale culturale del mondo, ma anche in grado di attrarre le folle dei cinefili e di contribuire attivamente alla ricostruzione (sia quella fisica che quella morale) della citta’.
Cosi’, nel maggio 2002, dopo soli 120 giorni di preparativi, il primo Tribeca Film Festival era pronto, grazie anche all’aiuto di 1300 volontari. Un pubblico di 150mila spettatori e oltre 10 milioni di dollari di incassi decretarono il successo dell’iniziativa. Da allora il Tribeca Film Festival si ripete con cadenza annuale ad inizio maggio e rappresenta il piu’ importante evento cinematografico della “Citta’ che ha visto tutto”, come viene etichettata New York negli spot del festival. E se quest’anno il TFF e’ stato quasi monopolizzato dall’evento (piu’ commerciale che artistico) “Spider-Man 3”, rimane pur sempre un’occasione per vedere in anteprima il meglio della produzione americana e qualche succosa anticipazione estera. L’aumento progressivo di spettatori e film presentati in anteprima ha avuto qualche controindicazione: prima di tutto prezzi alle stelle (da 18 a 25 dollari per proiezione, anche quelle meno “gettonate”) e qualche problema logistico per gli spettatori, con gli spettacoli che ora sono ora sparsi per tutta Manhattan e non solo, come erano all’inizio, nella zona di Tribeca (ovvero nel “TRIangle BElow CAnal”). Ciononostante, il Tribeca Film Festival rimane un’occasione unica per godere del grande cinema nella citta’ dove, piu’ di ogni altra, passeggiare per le strade ti fa sentire parte di un gigantesco set.
 
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