Monday, March 26, 2007
Roba da film
Sara’ pure una delle frasi piu’ scontate del mondo, ma vivere a New York e’ come vivere in un film. In nessun altro posto al mondo i confini tra realta’ e finzione sono piu’ sfumati: ecco il ristorante dove ogni lunedi’ sera suona (per davvero) il jazz Woody Allen, a pochi isolati da quello della prima scena di “Io e Annie”; ecco il Dakota, il palazzo di “Rosemary’s Baby”, teatro di una tragedia immaginaria e di una ben piu’ reale. Ecco la vera, ma falsa Little Italy di “Mean Streets”. Il vero grattacielo dove un finto King Kong si e’ arrampicato ormai tre volte. Insomma, tutto a New York e’ un film.
Un film dove ti puo’ persino capitare di incontrare Arnold, l’indimenticabile bambinetto di colore di un fortunatissimo telefilm degli anni ’80, uno degli idoli di quando eri bambino, e li’ per li’ ti sembra la cosa piu’ normale del mondo che sia tale e quale ad allora.
Poi pero’ ti ricordi che anche se sei a New York sei pur sempre nel 2007, e realizzi di colpo che Arnold deve avere quasi una quarantina di anni, eppure e’ sempre uguale al bambino adottato da Mr Drummond, quello che aveva un pesce di nome Abramo, quello che diceva “Che cavolo stai dicendo, Willy?”.
Qualche ricerca su Internet e capisci che l’intreccio tra finzione e realta’ a volte da’ luogo a cortocircuiti che nemmeno uno sceneggiatore di Hollywood riuscirebbe a immaginare. Scopri che Arnold in realta’ si chiama Gary Coleman ed e’ affetto da una malattia che si chiama Lupus Nephritis, una mancanza del sistema immunitario che ti mantiene per tutta la vita con l’aspetto che avevi a dieci anni. Scopri che Arnold, che credevi uno dei pochi fortunelli che gia’ a dieci anni si sono sistemati per tutta la vita (guadagnava qualcosa come 70mila dollari a settimana), con l’aiuto di genitori degeneri in un anno e’ riuscito a dilapidare un patrimonio di quattro milioni di dollari. Che lui, l’ex inquilino di Park Avenue, tra dipendenze fisiche (erba) e dipendenze da shopping (modellini di treni), ha accumulato un debito consistente. Che per smaltirlo si e’ ridotto a lavorare come guardia giurata e venditore di automobili. Che ha rischiato il carcere per aver tirato un pugno a una fan troppo insistente. Che ora nelle fiere del fumetto vende autografi a 25 dollari e si fa scattare foto per 5 dollari. Che ha persino fallito dove tutti gli altri attori sono riusciti benissimo, nella carriera politica: nel memorabile testa a testa Arnold contro Arnold per la California, Schwarzy ha vinto con quattro milioni e mezzo di voti. Lui, Arnold il piccolo, ne ha conquistati 14mila.

Non si puo’ dire che agli altri attori di “Arnold” sia andata meglio: Todd Bridges, alias il fratello Willy, ha avuto vari problemi di tossicodipendenza ed e’ finito in carcere in seguito ad un incidente. Dana Plato, alias la sorella Kimberly, e’ morta per overdose nel 1999, dopo una vita a dir poco travagliata, che la vide persino protagonista di film erotici. La triste sorte dei protagonisti ha alimentato le leggende su una sorta di “maledizione di Arnold”. Quando la realta’ supera (e di gran lunga) la finzione.
 
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Harlem Gospel
C’e’ una cosa che accomuna le guide di New York uscite negli ultimi dieci anni: tutte ti spiegano che Harlem non e’ piu’ quella pericolosissima terra di nessuno che era in passato, che anzi e’ una delle zone piu’ “cool” da visitare.
Harlem, vale a dire la zona Nord di Manhattan, e’ per chi non lo sapesse il cuore della comunita’ afro-americana di New York. Una zona che ha sempre goduto di pessima fama ma che, forse anche per questo, ha saputo mantenere intatta la sua identita’ etnica e il suo patrimonio culturale: percorrendo Avenue Malcolm X o Martin Luther King Street ci si sente un po’ come mosche bianche (nel vero senso della parola) in uno sciame di mosche nere. Qui, affacciate lungo la via, riconoscibilissime per le insegne luminose degne di un supermercato, una moltitudine di chiese delle sette piu’ disparate apre le porte ai religiosissimi abitanti del luogo, che hanno nella messa domenicale l’appuntamento piu’ atteso della settimana. E probabilmente non esiste posto migliore per assistere, gratuitamente, ad uno degli spettacoli musicali e religiosi piu’ autentici ed emozionanti al mondo: la Messa Gospel.
Probabilmente la maggior parte delle persone identifica il gospel con “quella cosa che fa Woopy Goldberg in Sister Act”. In realta’ il “Gospel” (che letteralmente vuol dire “Vangelo”) indica un particolare stile che emerse nelle chiese afro-americane a partire dagli anni Trenta. Derivato dalla tradizione degli inni metodisti e dai canti degli schiavi d’America, il Gospel affonda le sue radici nelle forme più spontanee di devozione religiosa delle varie Chiese dei Santi, che incoraggiavano i fedeli a "dare testimonianza" della loro fede parlando, cantando, suonando e addirittura danzando.
La Messa Gospel e’ una sorta di musical che si fonde con una funzione religiosa. Un grande coro (grande anche nel senso della stazza delle persone che lo formano) pare quasi dialogare con il reverendo che celebra la messa, in una sorta di circolo virtuoso che riesce a coinvolgere in modo quasi ipnotico il fedele come il turista occasionale. Tra grandi performance di soliste che non sfigurerebbero in un’opera lirica, continue manifestazioni di approvazione del pubblico e un esperto e ispirato celebrante che sa quali corde toccare come incendiare la platea, ci si aspetta che da un momento all’altro compaia John Belushi, alias Jack Blues, che finalmente “ha visto la luce”.
Si capisce quanto la comunita’ religiosa sia importante per gli abitanti di Harlem. Il reverendo invita a preghiere per la guarigione di un membro della comunita’, o chiede applausi per una fedele che ha ottenuto una borsa di studio. Addirittura snocciola, durante la funzione, il numero di targa di un paio di macchine da spostare. Da grande oratore, fa battute (e la gente ride di gusto) alternate ai punti forti della sua predica. E che predica! Tre quarti d’ora filati di discorso, al termine dei quali lui e’ sudato come un maratoneta mentre il pubblico applaude come fosse a un concerto rock. Ma e’ il coro il grande protagonista della domenica. Un coro nero capace con i suoi virtuosismi vocali di compiere un quasi-miracolo: far apparire corte come dieci minuti le due ore e mezza di Messa.
 
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Friday, March 16, 2007
Watch your step
C’e’ una prima, terribile prova che aspetta tutti quelli che arrivano nella Grande Mela: la subway. Di fatto, solo chi sopravvive all’impatto con la metropolitana di New York puo’ ragionevolmente sperare di arrivare indenne alla fine della vacanza o del soggiorno: in questo senso, viaggiare in subway e’ una delle esperienze piu’ darwiniane che possano capitare ad un turista.
A New York sei milioni di persone usano la metropolitana ogni giorno, il che dovrebbe far credere in una “user experience” tutto sommato a prova di idiota. Invece i primi tentativi sono inevitabilmente fallimentari: ci si aspetta che la metropolitana fermi allo stop successivo e invece ne salta cinque di fila e ci scarica a chilometri da dove dovevamo scendere; si chiedono informazioni sulla linea rossa e la gente nemmeno capisce di cosa si stia parlando; il conducente dice alcune parole in un arcano linguaggio e solo noi non capiamo che, solo per oggi, il treno su cui viaggiamo fara’ un altro percorso lasciandoci dall’altra parte della citta’. Aggiungiamoci che la metropolitana di New York e’ rumorosa, cupa e abbastanza inquietante: che, avendo piu’ di 100 anni, le strutture (e anche i treni) non sono il massimo della modernita’; che, specie nelle ore di punta, le possibilita’ di sedersi sono ridotte e ci si trova a fare viaggi di quaranta minuti in piedi, continuamente sobbalzati dai repentini cambi di traiettoria del treno; che non e’ raro veder passare tra i binari qualche ratto di almeno trenta centimetri. Ne viene fuori uno scenario apocalittico, in cui piuttosto che usare la subway uno preferirebbe percorrere le distanze a nuoto gettandosi nel fiume Hudson.
Invece, occorre solo qualche giorno per capire che la vita a New York non sarebbe possibile senza la metropolitana, che ne e’ il cuore pulsante, capace di muovere ogni giorno milioni di pendolari (commuters) con un’efficienza resa possibile solo da un ingranaggio perfezionatosi poco a poco dal 1904 ad oggi. La dura scuola della subway insegna in breve tempo a prestare la massima attenzione agli incomprensibili annunci dei conducenti, accontentandosi di capire qualche sillaba e di ricostruire il possibile significato; a leggere sempre gli apparentemente inutili fogli A4 affissi lungo le pareti che avvisano dei cambiamenti di percorso; a capire la fondamentale distinzione tra treni “express” e “local”; a metabolizzare il fatto che tutti i treni si chiamano con una lettera o un numero, non col colore; a rassegnarsi al fatto che Manhattan va viaggiata dall’alto al basso e viceversa, e non trasversalmente.
E solo la prima volta che arriverete senza l’aiuto della cartina e senza sbagliare alla fermata a cui volevate davvero arrivare... potrete finalmente sentire il brivido di sentirvi, almeno per un istante, dei veri new yorchesi.
 
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Tuesday, March 13, 2007
Tette e junk food
Chi si vuole fare un’immersione nella cultura americana “POP” piu’ autentica ha dal 1983 una meta obbligatoria: Hooters, la catena di ristoranti fondata nel 1983, che puo’ oggi contare su 425 succursali in 20 paesi.
Sarebbe sbagliato e incredibilmente riduttivo affermare che Hooters rappresenta la quintessenza dell’americanita’. Di fatto pero’ e’ il posto che meglio condensa tutti gli stereotipi dell’America, dal culto per il corpo (delle ragazze) a quello per le “Buffalo Wings”, dall’esibizione della celebrita’ allo sport piu’ praticato dagli americani: quello di vedere lo sport in televisione.
Il nome, Hooters, e’ gia’ indicativo. Richiama il verso del gufo, che appare anche nel logo del locale, ma in realta’ si riferisce ad una visibile qualita’ delle cameriere: nello slang americano Hooters e’ il seno femminile.
Il sospetto che viene inevitabilmente in mente e’ vigorosamente confermato una volta entrati: le cameriere del locale hanno in comune la giovane eta’, l’avvenenza, il fatto di essere molto prosperose e soprattutto quello di essere decisamente poco vestite. La divisa di Hooters e’ composta da una canottierina disegnata con l’evidente proposito di risparmiare sul cotone e da minishort che fanno sembrare monacale l’abito delle bagnine di “Baywatch”. Le cameriere hanno l’aria di sopportare senza grandi problemi gli sguardi tra il curioso e l’arrapato della clientela prevalentemente maschile del locale: sembra quasi che ne vadano orgogliose. Di fatto, incarnano alla perfezione lo stereotipo della “cheerleader”, con tanti saluti alle femministe che pure in America abbondano, e che devono vedere Hooters come un musulmano vedrebbe un Mc Donalds costruito di fianco alla Mecca.
Alle pareti, cimeli di ogni tipo. Abbondano le foto di “Hooters girls” in posa abbracciate a celebrities piu’ o meno in voga nel variegato e pittoresco panorama dello star system americano. Magliette autografate sono esposte in una sorta di Pantheon dello sport, tra caschi di football americano e mazze di hockey, divise di baseball e improbabili quanto poco convinti richiami al “Soccer”, che in America e’ sentito quanto in Italia il cricket. Alle pareti decine di schermi televisivi si spartiscono equamente le trasmissioni sportive live del momento, dall’incontro di basketball allo sport piu’ in voga del momento, quel Wrestling che anche in Italia riesce ancora a fare milioni di proseliti nonostante il pensionamento di Hulk Hogan e Dan Peterson.
Il menu’ di Hooters e’ semplice e diabolicamente irresistibile: hamburger, steaks, sandwiches, birra a fiumi e soprattutto le “Buffalo Wings”, le gettonatissime ali di pollo, acquistabili in quantita’ mini (10 pezzi), regular (20 pezzi) e “XXL” (un’ “orgia” da 50 pezzi, praticamente un’ecatombe di 25 galline).
Per la clientela “chic” un’offerta imperdibile, una sorta di apoteosi dell’americanata: 20 chicken wings PIU’ una bottiglia di Dom Perignon al ragionevole prezzo di 250 dollari. Se lo sapessero, i Francesi dichiarerebbero guerra agli Stati Uniti.

Insomma, Hooters e’ qualcosa di cosi’ autenticamente americano che persino una donna troverebbe la visita interessante ed istruttiva.
Figuriamoci un uomo.
 
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Sunday, March 11, 2007
Ipercalorico VS Ipocalorico
Dall'obesità più dilagante all’estremismo salutista. Dai New Yorchesi da fast food, quelli che prendono l’autobus anche per fare cento metri, agli atleti iper-vitaminizzati che alle 6 del mattino vanno a fare jogging a Central Park, magari mentre si scatena una tempesta, armati solo di Ipod e calzamaglia.
Ci sono un po’ tutti gli estremi a Manhattan, e questo vale per ogni settore. Ma nulla come gli scaffali di un supermarket ti fa capire la logica del “melting pot”, del calderone, di questo crocevia di stili di vita dove tutti gli estremi sono possibili. Come l’eterna lotta tra ipercalorico e ipocalorico: apparentemente, non esiste via di mezzo.

IPERCALORICO: i chocolate chunks. Ovvero, i tondi biscotti della nonna: croccanti, irresistibili, pieni di pezzettoni di cioccolata. Di misure variabili, partono da un diametro di pochi centimetri e arrivano alle misure di un frisbee. Nei film li vendono le ragazzine dei gruppi Scout. Nella realtà sono così “addictive” che andrebbero venduti di notte a Central Park da qualche spacciatore (di colesterolo).

IPOCALORICO: cereali. All natural, low fat, organic. Riportano sulla confezione queste scritte incoraggianti ed evidenziano le poche calorie. Vanno tantissimo, sia per colazione che per uno spuntino fuori pasto, magari nella versione vitaminizzata. Per apprezzarli bisogna essere o molto salutisti o direttamente galline.

IPERCALORICO: le Boston Cream. Chi ha visto almeno una volta i Simpsons le riconosce immediatamente: sono le tonde ciambelle di cui va pazzo Homer. Come se non bastasse la pasta, unta ed oleosa come se venisse dalle vasche di olio per la torta fritta di qualche Festa dell’Unità, c’è anche uno strato di glassa spesso almeno mezzo centimetro fuori e morbida crema pasticcera dentro. D’altronde Homer magro non è.

IPOCALORICO: le bevande “light”. Sono ormai diventate leggendarie le zero calorie della Coca Light. In un paese dove la Pepsi rimane comunque la bibita preferita, non esiste bevanda che non abbia la sua versione “Light”. Nei bar la birra Light (Bud e Corrs soprattutto) supera quasi la birra normale. Ne puoi consumare dieci litri e essere appena un po’ brillo. In Italia la “Drive beer” non pare essere altrettanto apprezzata.

IPERCALORICO: hamburger, buffalo wings, nachos. Un terzetto responsabile di alcune tonnellate di ciccia in eccesso. Scordatevi la striminzita fettina di carne di Mc Donalds: in quasi tutti i “luncheonettes” la carne ha uno spessore di 4-5 centimetri. I buffalo wings, ovvero le ali di pollo, sono servite a secchi. E i nachos sono sì innocue patatine di mais, ma sepolte vive da uno strato impenetrabile di formaggio, salse, guacamole, fagioli e molte altre sostanze non bene identificate.

IPOCALORICO: il sushi. Pare che questa specialità nipponica stia conoscendo una nuova giovinezza. Di ristoranti giapponesi a New York se ne trovano ormai in ogni angolo, a prezzi accessibili, con tanto di take away. Se avete vinto la lotteria, prenotate un tavolo al “Masa”, il ristorante del celebre sushi-chef Masa Takayama: dai 500 agli 800 dollari per una cena, ipocalorica per tutto tranne che per le tasche.
 
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